Underwater

Dicembre 16, 2018



Ho sempre amato l’acqua.
Mia madre mi infilò la prima volta in piscina a tre mesi e da lì non ho più smesso.
A quindici anni, poi, nel bel mezzo della mia adolescenza scoprii un nuovo mondo: la subacquea.

Ricordo distintamente la prima volta che misi la testa sott’acqua continuando a respirare: fu una sensazione meravigliosa di libertà, pace, serenità, perfetta connessione ed equilibrio.
Uscii con gli occhi brillanti e stracolmi di emozione: avevo trovato il mio posto, finalmente la mia dimensione.

Iniziai i corsi, brevetto dopo brevetto, sacrificio dopo sacrificio per imparare bene senza togliere troppo tempo all’impegno che mi richiedeva il liceo classico che frequentavo, con il sogno nel cuore di diventare istruttrice, non appena fosse stato possibile, per poter portare gli altri sott’acqua, per poter permettere, a chiunque ne avesse avuto il desiderio, di provare quella sensazione di pace e allo stesso tempo di libertà.

Man mano che andavo avanti e conoscevo subacquei mi rendevo sempre più conto che in qualche modo questa attività, al pari di altre e forse più, era per chi la praticava in un certo senso terapeutica.

In poco meno di quattro anni ero riuscita a conseguire 15 brevetti, a completare il percorso “amatoriale” e a fare più di un centinaio di immersioni.
Mi sentivo pronta, avrei finalmente potuto coronare il mio sogno, con la gioia nel cuore, con i tempi che mi ero prefissata.

Già, con i tempi che mi ero prefissata… nei miei piani avevo accidentalmente dimenticato di considerare che ero una ragazza, poco più che diciottenne, forse troppo intraprendente per la sua età e fisicamente minuta.

A chi importavano le ore in piscina e quelle in palestra per rinforzare i muscoli? A cosa era servita tutta la mia dedizione, la mia tenacia, i miei sacrifici, la determinazione?

Dal momento in cui si aprì concretamente la possibilità di diventare istruttrice iniziarono i “tempi morti”, “le scuse”, “gli istruttori inadeguati” (perché «losappiamochenonèungranchemaqualcosadevepurfare»), le mie domande “quando posso…” lasciate cadere nel vuoto, le mie richieste di essere seguita meglio, perché mi sembrava di star perdendo tempo, liquidate con dei «tranquilla, ci vuole pazienza» o con dei «certo, vedrai che la prossima settimana andrà meglio…».

Ma non andava meglio, non è mai andata meglio.
Anzi, se così si può dire, andava sempre peggio.

A due mesi dal presunto esame uscì un “nuovo percorso sperimentale” per chi voleva diventare istruttore e fu così che iniziai anche quello, passando le mie serate in piscina per provare tutti gli esercizi. E fra i «brava» e i «continua così» nessuno si prese la briga di dirmi che tanto non mi avrebbero portato all’esame. Perché probabilmente, secondo loro, mi sarei dovuta accorgere da sola che ero l’unica ragazza, minuta, poco più che diciottenne.

Passò un altro mese, in cui mi sembrava di non aver imparato nulla di più.
In cui mi sentivo sempre meno pronta e sempre più lontana dal mio sogno.

Decisi che mi ero stufata, che desideravo delle spiegazioni chiare, che avrei voluto sapere cosa avevano deciso per me.

E così andai “dai grandi capi” a chiedere spiegazioni.
Per capire cosa avrei dovuto e potuto fare.
Perché ero pronta a ricominciare, se mi avessero detto esplicitamente «devi migliorare A, B, C» io sarei stata pronta a rimettermi in gioco e rimandare di uno, due, anche tre anni quel traguardo pur di arrivarci preparata come si deve.

E invece no, mi dissero «che ci voleva tanto tempo e tanto impegno, che giustamente alla mia età ero impegnata a costruirmi un futuro e che dedicarsi ad una società subacquea era più una cosa da fare a tempo perso, quando famiglia e figli sono a posto, quando ti sei già realizzato, perché tanto con la subacquea non avrei mai guadagnato».
Mi dissero che ero troppo poco presente (perché non avevo partecipato a iniziative a latere), mi dissero che forse sarebbe stato meglio aspettare ancora un po’, magari rimandare l’esame da giugno a settembre (se mai avessero organizzato una sessione autunnale).

Chiesi, nuovamente, di essere seguita. Di potermi preparare durante l’estate, di poter arrivare a settembre pronta, anche se non c’era la certezza dell’esame.
Mi dissero che se ci fosse stata l’occasione mi avrebbero aiutato e che mi avrebbero fatto sapere se avrebbe avuto senso non appena ci fossero state notizie più chiare.

Parole, tante belle, confuse, parole.

Non sentii nessuno.
Feci delle immersioni, mi esercitai da sola, ma da parte loro nessuna notizia.
Le notizie mi arrivarono all’apertura della nuova stagione. Quando scoprii che la società subacquea aveva in organico due nuovi istruttori.
Brevettati nell’esame di settembre che era stato organizzato.

Mi sentii ferita, delusa, arrabbiata.
E non tanto perché quell’esame non l’avevo né dato né passato io, ma perché nessuno si era preso la briga di alzare il telefono anche solo per dirmi che ci sarebbe stata quella possibilità. Perché mi sembrava che nessuno avesse preso sul serio una ragazzina che voleva portare gli altri in acqua.

Non riuscivo a capire cosa ci fosse di strano, perché non potessi farlo anche io.
Poi, col tempo, ho capito e ho imparato.

Ho scoperto che in alcune situazioni, in alcuni contesti, essere giovane, donna e intraprendente non viene visto molto bene.
Ho imparato che a volte, per raggiungere i propri obiettivi, bisogna anche saper fare dei passi indietro: un po’ forse per dare meno nell’occhio, un po’ invece per avere quello slancio, come quando si carica un elastico, per correre ancora più veloce verso i propri Sogni.

​Solo con un po’ più di Coraggio.

Elena Swan


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