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Sole, ombre e arcobaleni
Aprile 21, 2020
Ciao, mi chiamo Marco. Pur innamorandomi di persone del mio stesso sesso, ho sempre faticato a sentirmi parte della così detta “comunità gay”.
Volevo condividere il mio pensiero a riguardo, sperando che possa aiutare altri che come me si son sempre sentiti estranei un po’ a tutto.
Ho da sempre disdegnato l’idea di società come la viviamo oggi. In 35 anni di vita, ho capito che far parte della società significa far parte di un gruppo, quindi eliminare la propria reale identità o tenere il proprio pensiero a bada per dover essere come gli altri, per pensare come gli altri e perché gli altri si possano sentire di avere qualcosa in comune con te. C’è una distorsione del concetto di inclusività che diventa, in realtà, esclusività.
Crescendo in un paesello medio-borghese Brianzolo, ho scoperto come la società in cui vivevo aveva nel suo interno vari sottogruppi basati tutti sull’arrivismo, su chi è migliore, sul tasso di privilegi che uno ha, che ti mettono in una posizione più alta o più bassa, che ti danno accesso o meno ad ambienti più o meno elitari. Rientri nelle categorie non per come pensi ma per quanti soldi hai e come ti poni all’esterno, per che luoghi frequenti, per gli studi che hai la possibilità di fare. Dico questo pur essendo nato con parecchi privilegi, e che la società non mi ha mai respinto, ma anzi, sempre cercato di tenermi stretto. Quando avevo finalmente capito il mio orientamento sessuale, quindi pensando di identificarmi come gay, mi sono auto-espulso da tutta quella società che ormai mi avrebbe visto come diverso, o forse perché la vedevo io troppo diversa da me. Qualche amicizia è rimasta, ma anche io avevo bisogno di cambiare aria.
Ho quindi lasciato il paesello alle spalle e ho cominciato a frequentare ambienti più aperti a Milano, dove potevo in teoria conoscere persone “come me”, che magari avrebbero provato le stesse cose che ho provato io nel sentirmi diverso e quindi cercare un nuovo modo di unirsi. Ho trovato esattamente l’opposto. Per assurdo, la comunità gay non è che un altro costrutto esattamente uguale a quella società da cui proprio noi veniamo rigettati. Ci mettiamo nei box e diventiamo le caricature che la comunità gay può “accettare” o comprendere, e che quella eteronormativa può poi stereotipizzare, quella da far vedere in TV. Così è più semplice per tutti, rimanendo intrappolati in un modello sociale tossico che per la maggioranza non si è mai evoluto dalle scuole elementari.
Dico questo perché arrivato a Milano, notavo come l’unico modo per essere accettato sia dalla comunità gay, che dalla società in generale, addirittura nel lavoro (facevo il commesso allora), era entrare a far parte di uno stereotipo, anche se gay, quindi creando una omonormatività. Alla società, quindi, non importava tanto il mio orientamento sessuale (tranne che agli omofobi irrecuperabili) ma semplicemente che sembrassi “normale”, riconoscibile, replicabile e intercambiabile. Così entrai a far pare di uno di questi sottogruppetti presenti tutt’oggi, basati su come ti vesti, che lavoro fai, che locali frequenti, quanti followers hai, com’è la tua apparenza, che preferenza di ruolo sessuale hai e così via, per scappare dalla paura di confrontarsi con altre realtà. Mi sono trovato a dover fingere di essere qualcosa che in realtà sentivo non appartenermi proprio perché la società in primis impostava questo genere di raggruppamento basato sul privilegio, andando così a sopprimere la mia parte interiore, reale e umana e per vestirmi anch’io di una maschera. Allora neanche capivo troppo queste dinamiche; lo facevo perché pensando di essere già diverso, gay, dovevo quasi rendermi a maggior ragione “normalizzato” per essere incluso. Con gli anni ho poi fatto il mio percorso di cambiamento ed integrazione, ma non è stato facile – per capirlo, devi prima uscirne, e uscirne porta alla solitudine, all’emarginazione, ma anche a una grande consapevolezza di sé e degli altri, che poi è la cosa più importante.
È qui il punto. Non conta di che comunità fai parte se in primis non sai chi sei. Se ti identifichi ancora nel tuo aspetto, nelle marche che compri, il lavoro che fai o con chi vai a letto, non saprai mai chi sei in realtà. Diventi un’altra faccia su Instagram che cerca di essere come tutte le altre.
Se non sei nei canoni di bellezza e mascolinità preimpostati, sei out.
Questo concetto di omonormatività viene validato anche dall’idea delle “tribes”, le tribù a cui (a quanto pare) devi appartenere… bears, muscle, jocks, fems, e così via (ah, in questa lista c’è anche asian… come se quella fosse una tribe e non una semplice provenienza. Usata così si chiama razzismo. Stiamo quindi alienando un gruppo a priori, o peggio ancora, lo si rende vittima di feticismo inconsapevole?).
Ecco, un’altra cosa sbagliata che ho trovato in questa “comunità gay” è questo morbo per il sesso. Tutti su Grindr a cercare chissà cosa, per far gara a chi ne fa di più, che poi in realtà tutto ciò che fa è riempire l’ego temporaneamente per poi lasciare l’Io in un vuoto ancora più grande di prima. E chi ci sta dentro, proprio per riempire di nuovo questo vuoto, continua a fare questo rifornimento di endorfine che poi ti risvuota di nuovo, in un continuo gioco di piacere fugace, che porta poi solo a non saper provare più Amore (per ironia, l’icona dell’app è proprio una maschera… quella che in teoria dovremmo toglierci) diventano tutti pezzi di carne che scegli come quando fai la spesa online. Se non sei sessualmente aperto e sempre disponibile non servi a niente, devi essere predatore o preda.
Ho avuto esperienza diretta in questo quando sono andato a ballare una delle prime volte in una discoteca gay. Mi era stato offerto un drink da un ragazzo ma a mia insaputa era stato manomesso, ci aveva messo dentro del ghb, la droga dello stupro, e dopo pochi sorsi sono collassato. Sono stato portato fuori dal locale a cucchiaino, incosciente. Per questione di puro caso e fortuna, i miei amici mi trovarono mentre mi stava mettendo in macchina e riuscirono a salvarmi, per poi chiamare l’ambulanza. Potevo finire chissà dove, la mia vita era appesa a un filo. Ero andato in coma, e rimasi fino al giorno seguente in reparto rianimazione per l’assurda quantità di droga mixata ad alcohol che c’era in quel cocktail letale. Quell’esperienza ha distrutto per me l’idea che la discoteca gay, allora uno dei pochi – se non unici – luoghi di ritrovo possibile per questa comunità, era un luogo sicuro. Tutt’altro. Con l’ingenuità di allora non pensavo che una cosa del genere potesse succedere a me. Non tutti erano lì per divertirsi, ballare ed essere liberi, in questo genere di luoghi bisogna stare attenti ad altre dinamiche che prendono piede.
Da vittime della società quindi, ciò che ci rende diversi dalla gente che odia non si dovrebbe fermare al sesso, ma da come uno si pone in confronto dei propri privilegi, e quindi verso il prossimo. Da uomo gay bianco, riconosco di aver avuto ad esempio molti più privilegi di una donna lesbica bianca, e magari lei a sua volta più di un uomo etero nero, in Italia. L’inclusione non è raggrupparsi a seconda del proprio stato sociale e indossare tutti le stesse marche e farci tutti i capelli uguali. È rompere i propri privilegi per includere il diverso, così da formare idee di pensiero più forti, più vere, per condividere la ricchezza.
L’omofobia, è esattamente la stessa bestia del razzismo e del sessismo, creati dalle regole preimpostate della chiesa che da centinaia di anni creano una società di gregge, che ponevano (e pongono tutt’oggi ahimè) l’uomo etero bianco come modello di perfezione. Se poi aggiungiamo nel mix il colonialismo e il razzismo che han poi dato vita al capitalismo, si arriva alla completa identificazione dell’essere – l’Io – in ciò che possiede e come si pone all’esterno – l’ego – la maschera, che non da peso a sentimento, emozioni e identità ma deve prevalere sugli altri. Bisognerebbe mettersi tutti sullo stesso piano per distruggere la gerarchia piramidale di fondo che ci è stata imposta e che applichiamo e replichiamo in tutto, il dover arrivare a tutti costi al vertice calpestando gli altri. Se fossimo tutti uguali non ci sarebbero vertice e plebe.
L’altro problema connesso qui è la spiritualità, secondo me. Dato che la chiesa ha instaurato un credo che esclude e stigmatizza l’omosessualità, la maggior parte degli omosessuali esclude a propri la possibilità di credere in qualcosa di più grande, andando a distruggere valori validi che la chiesa ha usato, estrapolandoli per gran parte dal Buddismo e manomettendoli qua e là a loro piacimento, dando un senso sbagliato di religione e fede per creare divisioni tra il popolo e conquistare attraverso la paura e guadagnandoci pure sopra. Non dimentichiamoci che fino a pochi anni fa la chiesa e il governo andavano di mano in mano (se non ancora tutt’oggi). Dico questo perché l’ho provato io in primis sulla mia pelle, nella ricerca di me stesso, e riesco ora a vederlo con occhio critico come problema generale. Il credo dovrebbe essere personale e diretto, e non mediato da altri uomini, proprio perché è connettendosi con sé stessi e la propria condizione umana che si arriva al soprannaturale, a qualcosa di più grande di noi ma che allo stesso tempo è proprio la linfa di vita che scorre dentro di noi. La coscienza. Quella che ti ferma per un attimo quando in fondo sai che la cosa che stai per fare non porterà a nulla di buono o che semplicemente non è giusta. La vita ha poi i suoi modi per mostrarci i frutti delle nostre decisioni.
Sbagliamo quindi a creare comunità basate sulla divisione, perché diventano appunto società. Si dovrebbe chiamare “società gay” quella che c’è oggi. Per creare una vera comunità, dovremmo cominciare da capo e forse chiamarla con nuovo nome… Comunità Arcobaleno magari, per far rientrare chiunque si senta diverso o escluso da quella società costruita su patriarcato, privilegio, razza, normatività, dualismo e individualismo.
Come stiamo facendo oggi, l’omofobia viene solo camuffata ed alimentata in primis tra di noi, come un’ombra. Prendiamo come riferimento una società eteronormativa, traslandola in modi ancora più meschini tra di noi proprio perché abbiamo centina di anni di traumi, ferite e stigma da cui guarire, che invece ci intrappolano perché le ferite non guarite si trasformano in infezioni, o nel nostro caso, “inaffezioni” (se si può fare un gioco di parole), in odio inconsapevole.
Forse proprio per tutto questo non ho mai fatto un vero e proprio “coming out”. Non capivo da cosa dovevo uscire. L’unico coming out che ho fatto é dal modo di vivere e pensare imposto dalla società. Ho imparato a connettermi col mio dolore e capire che non era dato da me, non ero diverso o sbagliato e non avevo bisogno di essere validato da niente o nessuno, dovevo solo guarire per poter dare Amore. E per dare Amore, quello vero, sincero, senza limiti o fabbricazioni, dovevo prima combattere lo status quo che me l’aveva negato, che me lo faceva percepire in maniera distorta.
Non serve quindi unirsi solo dal punto dell’orientamento sessuale e della sessualità, perché poi ne esce solo quello: sesso e superficialità, non Amore, proprio perché sono radicati nell’edonismo e nell’assenza di valori reali della società odierna. La Comunità Arcobaleno dovrebbe essere improntata su nient’altro che l’accettazione della pura identità umana, in qualunque modo essa si voglia manifestare ed identificare, aperta ad ogni sua sfumatura. Ma per arrivare lì, bisogna prima decolonizzare la nostra stessa mente e capire anche che identificarsi con qualcosa di esterno, che siano possessioni, lavori, usi e costumi o gruppi di persone porta solo all’annullamento dell’essere e alla formazione della maschera. L’unico modo per guarire da questa infezione di massa è fare i conti con se stessi, aprendosi ognuno alla propria vulnerabilità in un confronto costruttivo con l’altro, per capire che poi, in fondo, siamo tutti uguali ma con diversi talenti. Bisognerebbe semplicemente collaborare.
Sono proprio le differenze individuali a renderci così speciali, come i diversi colori che lavorano insieme per formare un solo bellissimo arcobaleno. Quell’arcobaleno che dovrebbe unirci tutti, proprio perché tutti riflessi dalla stessa luce – il Sole.
Marco Cavallini