Ne è valsa la pena

Novembre 28, 2018



Siamo nel 2004 e qui inizia il mio percorso nella scuola secondaria di primo grado. Mi portavo dietro dalle scuole elementari delle lacune nelle materie scientifiche, così i miei genitori decisero che sarebbe stato più opportuno iscrivermi in una scuola paritaria, dove la possibilità di essere accompagnato “meglio” nel percorso didattico era più alta rispetto alla scuola statale.

La mia famiglia ha delle origini umili, con un retaggio socio-culturale medio. Da che io ho ricordi, ha sempre lavorato solo il mio papà, un operaio metalmeccanico che insieme a mia mamma ha sempre fatto tanti sacrifici per permettere a me e mia sorella una vita dignitosa, ma soprattutto ci ha garantito un’educazione forte, crescendoci capaci e consapevoli.

Tuttavia le possibilità economiche erano limitate (retta della scuola paritaria compresa) e i miei compagni di classe fin da subito hanno colto questa mia condizione, non facendo mai mancare battute e frecciatine di ogni tipo. Piccoli scherzi che hanno assunto, nei tre anni di istruzione, toni sempre più forti, inappropriati e cattivi.
Essere considerato e accettato in base alla firma che portano i tuoi vestiti, in base al lavoro che svolgono i tuoi genitori, o presupponendo che avere possibilità economiche ti renda migliore; tutto questo per me è stato difficile. Senza contare che all’interno del contesto classe, a fianco alle continue e ripetute prese in giro, c’era una condizione di sopraffazione da parte dei miei compagni.

Il mio sviluppo puberale è stato tardivo e, fino ai 14 anni, ho mantenuto una bassa statura e dei tratti somatici “fanciulleschi”. Questo mio aspetto fisico mi ha portato ad essere, spesso e volentieri, al centro di atti di bullismo: scherzi con schiaffi, calci e materiale scolastico appositamente danneggiato, solo per citarne alcuni. Senza contare che di tutta la classe ero il più piccolino, il meno adatto a farsi notare per la prestanza fisica o abilità particolari.

Ciò che mi riusciva meglio era curare la relazione, in particolar modo con le ragazze. Ascoltare piccoli problemi quotidiani non era solo il mio passatempo preferito, ma ritenevo che fosse ciò che mi riusciva meglio. EsserCI per le persone mi veniva spontaneo, era piacevole perché potevano contare sulla mia presenza.

Tutto questo dava fastidio ai miei compagni di classe maschi; essere molto amico delle femmine significava essere una “checca”, un “finocchio” o un “frocio”. Tuttavia non mi hanno fermato, anzi. Ho capito proprio in terza media che volevo che questo “aiutare le altre persone per mezzo di un dialogo, per mezzo della relazione” divenisse il mio lavoro. Sentivo dentro di me che era importante perché era davvero ciò che sapevo fare meglio.

In parallelo ho sempre esercitato una ricerca, fuori e dentro di me, di una dimensione profondamente legata alla natura: prima con il disegno e la pittura, e successivamente con la fotografia.

Le cattiverie e le violenze dei miei compagni hanno fatto male, ma non mi hanno indebolito, non mi hanno trasformato in peggio, anzi. Sono felice di aver imparato a non odiare, felice di essere stato capace di sopportare, perché ne è davvero valsa la pena.

Simone Genovese


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