Figli del patriarcato

Luglio 7, 2020



I miei genitori si sono conosciuti quando entrambi avrebbero dovuto, secondo le regole dell’eteronorma e del patriarcato. Questo ha fatto sì che nascessi io.

Durante la gravidanza mio padre ha regalato a mia madre un ciondolo da un lato rosa, dall’altro blu. Mi hanno sempre raccontato che lo indossavano dal lato casuale perché non gli interessava davvero sapere il sesso del nascituro. Ero piccina quando ho iniziato ad ascoltare questa storia e mi si riempiva il cuore di gioia, era un gesto estremamente inclusivo ed io mi sentivo accettata per essere semplicemente me, non una bambina o un bambino.

Durante la prima infanzia ponevo ai miei genitori infinite domande su qualsiasi cosa io vedessi o immaginassi. La mia più grande curiosità era come fossi nata, chi mi ospitasse prima della pancia di mia mamma e soprattutto, come fossi arrivata fin lì.

Spiegare ad una bambina di cinque o sei anni che cosa fosse il sesso, un pene o una vagina sarebbe stato troppo, una bambina non deve sapere nulla sulla sessualità e su tutto ciò che ne concerne. Così mi spiegano che dall’amore di due persone nascono i bambini. Io sono sempre stata troppo curiosa per accontentarmi di questa risposta non troppo chiara e non troppo realistica, così controbatto con la domanda che ancora oggi mi riecheggia nei pensieri: “allora perché sono nata io?”.

Attraverso la psicoterapia, circa due anni fa, ho trovato la risposta a questa domanda: io sono figlia del patriarcato. Sono la conseguenza di questo sistema discriminatorio, ingiusto e sbagliato. Da questa consapevolezza si è accesa una fiamma dentro di me, non ero d’accordo con questo sistema e dovevo cambiarlo.

Sono sempre stata diversa, non mi piaceva essere figlia di un non-amore, di un sistema in cui non mi riconosco. Io non sono nata dall’amore di due persone ma dalla necessità di omologarsi all’eteronorma, probabilmente i miei genitori non si amavano o hanno scambiato la paura di non essere “normali” con l’amore. Sento queste parole incise a fuoco sulla mia pelle. Io, figlia del patriarcato, che lotta affinché questo sistema non esista più. Una contraddizione.

Non sono la sola figlia del patriarcato, dopo di me ne è nata un’altra, Aurora. Quando mi hanno annunciato la gravidanza, penso di aver provato la gioia più grande di tutta la mia vita. Ero felicissima all’idea che nascesse un* compagn* di giochi, aspettavo con ansia il momento in cui potessi amarl* e prendermene cura. Questa gioia, però, viene spenta dai “grandi”. Ricordo una frase precisa, “ora che nascerà aurora, prenderà il tuo posto e tu non sarai più la principessa di casa”. Così, come un paio di scarpe che non vanno più di moda, vengo sostituita da chi doveva essere mio alleato.

Questa frase segna l’inizio di un trauma che ha lasciato segni indelebili dentro di me. Mi sono sentita morire e da quel momento la mia vita ha iniziato a scorrere accanto a me, senza sfiorarmi, come se io fossi il fantasmino di un corpo che non apparteneva più a nessuno.

Nasce questa “principessa” e dai primi anni di vita fa trasparire la femminilità che la contraddistingue. Aurora è bellissima, passa ore davanti allo specchio per curare la sua immagine, attorniarsi di finti gioielli e trucchi rubati alla mamma. Io, invece, ero un soggetto un po’ ambiguo, non mi piaceva pettinare i capelli ed erano sempre in disordine, non curavo il mio aspetto e chiedevo sempre vestitini “da maschio”. Che disonore, la prima nipote femmina dell’intera stirpe che di femminile ha poco e niente.

Così, piano piano, divento un fantasmino. Nessuno si vanta dei miei traguardi, delle mie conquiste, tutti si vantano della folta chioma bionda di Aurora, del suo portamento e della sua forte personalità.

Sono figlia del patriarcato ma mi ribello fin dai primi anni di vita e questo non va bene per loro.

Un* bambin* cresce in diversi contesti sociali e se quello familiare non è un luogo sicuro, potrebbe esserlo la scuola. Nel mio caso, no. La paura di non essere “abbastanza femmina”, “abbastanza brava” perché tanto i miei compagni o le mie compagne lo sono di più era una costante nella mia carriera scolastica, così da iniziare a soffrire di attacchi di panico dall’inizio della scuola materna, a tre anni.

Il mio sentirmi un fantasmino ha fatto sì che io mi comportassi da tale e di conseguenza le persone attorno a me come maestre, compagni o famiglia, si sentivano autorizzati a trattarmi come se valessi meno degli altri, in secondo piano. In particolare, ricordo di come la maestra di matematica reagì alla mia richiesta di aiuto in quanto vittima di violenza. Essendo una bambina femmina, tranquilla e silenziosa, le maestre mi utilizzavano come aiuto per i bambini più violenti, così mi cambiarono di posto e il mio nuovo compagno di banco inizió da subito a bullizzarmi. Se non gli facevo copiare i compiti oppure non gli passavo quelli già svolti, mi picchiava. Quando finalmente trovai il coraggio di dirlo alla maestra, questa ripose con delle parole pesanti come macigni. Il padre di P., il mio compagno di banco, era solito picchiare la moglie, anche davanti al bambino e questo è il motivo per cui nessuno ha agito sulla violenza che subivo: lui, maschio, imita suo padre violento quindi io, femmina, devo stare zitta e subire. Nessuno fece nulla, mi dissero che non si poteva intervenire perché G. viveva una situazione particolare e per lui quella era la normalità. A nessuno interessava che io fossi vittima di violenza, era solo lo specchio di un sistema maschilista e patriarcale in cui normalmente una donna viene picchiata da un uomo.

Crescendo, mi sono accorta di una difficoltà nello studio e quando al mio migliore amico arrivò la diagnosi di DSA, io chiesi subito lo stesso aiuto. Credevo che come mia mamma ha aiutato e notato il mio amichetto, dopo aver dato un nome ad un evento, potesse comportarsi allo stesso modo con me. Io ed E. avevamo le stesse difficoltà, facevamo i compiti ma lui è stato aiutato anche dalla mia famiglia, io ero solo sfaticata. Ricordo che siccome si sospettava che questo bambino fosse dislessico, io dovessi leggere ad alta voce per aiutarlo senza che nessuno aiutasse me.

Arriviamo così in quinta liceo, quando finalmente maggiorenne, contatto autonomamente una tutor DSA per chiedere aiuto. Dopo quasi dieci anni arriva anche a me un foglio con su scritto che non sono sfaticata, pigra o chissà cos’altro. Ho un DSA misto.

Da qui, altro pretesto per subire discriminazione. Ricevere ciò che mi spetta di diritto non è giusto nei confronti dei miei compagni perché dobbiamo essere tutti uguali, se sono riuscita a leggere fino alla quinta liceo posso continuare a sforzarmi senza il mio Piano Didattico Personalizzato. Quello allo studio è un diritto inalienabile, vale a dire che per nessun motivo può essere soppresso o sottratto. Vi è una legge, la 170 del 2010, nella quale viene affermata la necessità degli studenti DSA di utilizzare strumenti compensativi affinché venga garantito il diritto allo studio. Nonostante questo, ancora oggi studenti come me vengono discriminati.

Mi rendo conto di come ogni mia caratteristica sia pretesto di discriminazione, di come questa sia nata prima di me. Mi rendo conto che oggi ho una risposta alla domanda che mi accompagna da sempre: sono nata per cambiare questo mondo!



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