
Così sbagliato
Novembre 9, 2018
Ho conosciuto Antonio perché probabilmente avevo bisogno di sentirmi rassicurato in un paese che non era il mio, e forse la foto che aveva scelto per il suo profilo sull’app dalla maschera gialla mi faceva sentire a casa – una semplice spiaggia, mi pare siciliana (leggasi un profilo di quelli che non contatterei mai, ma lo ammetto, ero un italiano all’estero) – : ero arrivato da poco a Varsavia, dove avrei trascorso 5 mesi per la mia mobilità Erasmus. Antonio inizialmente se la tirava, o almeno era questa la sensazione che avevo provato. Sfuggente, a tratti. Poi ci siamo visti, una sera in un pub a bere una birra o due, un’altra volta nel centro commerciale più grande (e anonimo) della capitale. Posti mediocri, forse, ma a noi non interessava: c’era qualcosa, e lo sapevamo entrambi.
Era strano, certo: due siciliani, le cui città d’origine distano un’ora in auto, che si trovano a Varsavia. Per caso.
Era strano, perché sapevamo di non voler correre, ma ad un certo punto non eravamo più in grado di camminare.
Era strano, ma non ce ne siamo resi conto, e abbiamo passato 16 ore a letto insieme, senza soffitti o pareti che ci impedissero di vedere (l’)Altro. Ed era strano sentirsi così, ma tutto era Bello, ed era l’unica cosa che importava.
Sentire il Bello, sentirsi giovani e provare quel qualcosa che evitiamo di riconoscere e definire quando, dopo averlo cercato a lungo, piomba all’improvviso nella nostra vita, ci rendeva felici, e allo stesso tempo incoscienti, quasi come se potessimo non aver paura. Paura di cosa poi, di essere noi stessi?
Non c’era stazione della metro di Varsavia che non avesse visto un nostro bacio, o non avesse sentito le nostre buonanottisussurrate, gli “scrivimi quando arrivi a casa” tra gli abbracci a più riprese. Non avevamo paura, e non avevamo avuto nessuno strano presentimento nemmeno quando, ad Halloween, il bodyguard della discoteca in cui eravamo ci disse “Stop guys” mentre stavamo ballando, come se stessimo facendo qualcosa fuori luogo o non potessimo ballare come tutti gli altri.
Due ragazzi, in discoteca.
Stavamo ballando, ci stavamo baciando.
“Stop guys”.
Stop, ovvero non potete andare oltre, ché già quello che avete fatto è troppo.
Non potete baciarvi, non potete fare quello che i ragazzi “normali” fanno, non qui perlomeno.
Nonostante quella sorta di avvertimento, non avevamo paura, non ancora. Quella è arrivata un mercoledì sera come un altro, nella discoteca frequentata quasi esclusivamente da studenti Erasmus. Io e Antonio non stavamo ballando con altri miei amici, eravamo seduti su dei divanetti, quasi in disparte.
Ricordo che nonostante la musica e l’atmosfera leggera della serata, mentre ci baciavamo non ero tranquillo. Antonio mi chiese più volte cosa non andasse, ma non sapevo dare una risposta. Poi è arrivata, insieme alla paura e al bodyguard (un altro, più energumeno) del locale, il quale non si è premurato (questa volta) di avvertirci in inglese o di chiederci di fermarci. No, tutto ciò che abbiamo capito è stato il classico insulto polacco e, dalla mimica facciale, il disprezzo di chi non accetta quello che ha davanti agli occhi.
Avete presente quando, da piccoli, si andava all’AquaPark e si provavano gli scivoli?
Io ho sempre avuto il terrore di quelli chiusi, i classici tubi. Quando mi ritrovavo davanti a quella sorta di imbuto, per qualche motivo a me sconosciuto, non vedevo l’ora che arrivasse l’acqua, ma non quella dentro allo scivolo, che amplificava il mio senso di claustrofobia, bensì quella che voleva dire fine. Ché poi erano pochi secondi, ma io non riuscivo a respirare.
Ecco, io ero appena entrato in un tubo, ma vi ero stato spinto con la forza, e non vedevo l’ora arrivasse la fine. Siamo stati spintonati, e nel tentativo di calmare l’energumeno, mi sono beccato un cazzotto in faccia. Da lì non ricordo poi con chiarezza cosa sia successo, so solo che siamo arrivati alla fermata, e che la paura aveva vinto, mentre la rabbia bolliva in silenzio.
Io e Antonio non abbiamo parlato per diversi minuti, avevamo deciso di leccarci le ferite, senza dircelo.
Mai come quella volta mi sono sentito sbagliato, indegno, fuori posto. E dopo tutti gli sforzi fatti per accettarmi, per superare un retaggio culturale che lascia poco spazio alle differenze e alla diversità (poste in questi termini), dopo aver capito e vissuto Bellezza, Felicità e Amore, qualcuno era riuscito a farmi sentire sbagliato, diverso, anormale, e così facendo, in qualche modo, glielo stavo permettendo. Che poi forse non era stata la violenza a far male, quanto l’esser derisi dagli altri bodyguard e dal loro atteggiamento di scherno mentre uscivamo dalla discoteca.
L’indomani penso sia stato il giorno più brutto di tutto il mio Erasmus. Sono rimasto a letto, tutto il giorno, a rimuginare su me stesso e a pensare a cose senza senso: stavo toccando il fondo, e non volevo risalire.
Poi, come sempre, è bastata la poesia a farmi stare bene, a farmi ritrovare me stesso; avevo infatti in mente un verso sentito più e più volte, “the Love that dare not speak its name”*, l’ho cercato su internet, ed era tutto ciò di cui avevo bisogno in quel momento.
Ho postato la poesia su Facebook, ed una mia amica ha commentato in risposta con uno stralcio dell’intervento di Wilde al processo:
“[…] It is that deep, spiritual affection that is as pure as it is perfect. It dictates and pervades great works of art like those of Shakespeare and Michelangelo, and those two letters of mine, such as they are. It is in this century misunderstood, so much misunderstood that it may be described as the “Love that dare not speak its name,” and on account of it I am placed where I am now. It is beautiful, it is fine, it is the noblest form of affection. There is nothing unnatural about it. […]”
Era così, lo sapevamo entrambi.
Naïf, semplice, ma vero.
E avremmo dovuto trovare il coraggio di dircelo, almeno quella volta.
*Two loves, di Lord Alfred “Bosie” Douglas.