Lezioni di “normalità” da una draghetta di nome Emily
by Sara Silvera Darnich / Aprile 30, 2020
Emily è una draghetta, figlia di un’onorata e longeva famiglia di sputafuoco. Bisnonne/i sputafuoco, Nonne/i sputafuoco, Mamma e Babbo? Sputafuoco pure loro.
Non appena è venuta al mondo, nessun dubbio: sarà una sputafuoco anche lei.
Ma Emily di fare fumo e fiamme non ci pensa neanche, tutto quello che riesce a fare è sputacchiare bava. All’inizio nessuna paura: “ogni drago che si rispetti verso i due anni emette il suo primo ruttino di fuoco”, c’è tempo.
Ma il tempo passa e la draghetta ha già nove anni, Mamma e Papà decidono di mandarla a scuola dove le cose non migliorano neanche con gli insegnamenti della Maestra.
Sarà il Famoso Dottor Kripus a capire una cosa che cambierà tutto: “Questa draghetta ha qualcosa che non va”.
Chi lavora nella professione educativa sa già che ogni esperienza genitoriale porta con sé un bagaglio di ansie. Alcune volte capita che siano talmente ingombranti altre volte sono così ben nascoste che sembra che non ci siano.
Che sia un piccolo beauty case o un set di 12 valige, a stabilirlo è solo la conoscenza reciproca.
Se ci pensiamo bene, il percorso alla nascita è costellato di prove pre e post natali: amniocentesi, indice Agapar, parametri di peso, circonferenza, lunghezza; tutti elementi che servono a confermare un unico desiderio: “Qualsiasi cosa, basta che sia in salute”.
Anche dopo la nascita, l’esame continua in tutte le fasi di sviluppo: primi denti, prima parola, primi passi. Tutte esperienze che devono essere sottoposte a rigidi controlli in modo da trovare un ritardo, una falla nel sistema.
E se questo ritardo dovesse verificarsi per davvero? E se un espert* dovesse certificarlo? Cosa succederebbe dopo?
Ce lo racconta Emily.
Mentre gli altri personaggi cercano una soluzione perché la draghetta cominci a sputare fuoco , nessuno si accorge che lei riesce a essere anche “un drago giocoliere specializzato in salto in lungo, tuffi a bomba e capriole senza mani”.
Finché un giorno, in maniera inaspettata, scoprirà come mostrare il suo modo di “essere un drago”.
All’interno del libro c’è un’immagine che mi ha colpito moltissimo: la maestra di Emily, spazientita (o preoccupata) del fatto che non riesca a sputare fuoco, le riempie la bocca di petardi e fuochi d’artificio. È un’immagine all’apparenza buffa ma racconta perfettamente l’accanimento di alcuni adulti sulle difficoltà dei bambini.
Mi ha ricordato molti degli episodi che ho vissuto nella mia infanzia e nella mia adolescenza: interrogazioni quotidiane, continue e ossessive ogni volta che non riuscivo a prendere la sufficienza, l’incapacità di fare conti a mente nonostante avessi più di 6 anni, le frasi denigratorie e giudicanti dei docenti davanti allo stato dei miei quaderni e delle mie pagelle.
Due anni fa, a 27 anni, ho ricevuto una diagnosi molto, molto tardiva di Disprassia.
Sono una donna adulta che lavora e ha un’esistenza felice, ma i ricordi della mia infanzia sono molto vividi e l’esperienza che ho vissuto è stata raccontata alla perfezione in questo libro.
Per chi ha un disturbo, una disabilità o una condizione di neurodiversità è molto difficile distogliere lo sguardo dalla propria difficoltà: se non sai fare qualcosa, smetti di esistere.
Lo sguardo è sempre di due tipi: o di disapprovazione, o di pietà.
Da educatrice e da “persona in ritardo” mi rendo conto di quanto sia necessario cambiare lo sguardo sulla diagnosi stessa, vista troppo spesso come punto di arrivo invece che di partenza.
La diagnosi è una diramazione di un vasto insieme di intrecci che compone l’individuo; tenerne conto è fondamentale, ma renderla totalizzante è pericoloso.
“Emily – una draghetta speciale” racconta ai bambini le infinite possibilità che hanno per “essere drago” come meglio desiderano, ma soprattutto solleva il velo totalizzante della diagnosi e dice agli adulti di tenersi forte, che il bello deve ancora venire.