Le discriminazioni sono in aumento e non ce ne stiamo rendendo conto

by / Marzo 1, 2020



Oggi è la giornata mondiale contro le discriminazioni. Ora che lo sapete, potreste chiedervi: in Italia, ha ancora senso parlare di discriminazioni? Assolutamente sì, specialmente perché stanno aumentando. Ma andiamo con ordine.

I dati più completi che abbiamo a disposizione sono quelli della Commissione “Jo Cox” (2017), che ha stilato una relazione finale sui fenomeni di odio, intolleranza, xenofobia e razzismo. I risultati delineano l’esistenza di una piramide dell’odio che presenta una serie di atteggiamenti e azioni negative che si possono attuare verso il prossimo.

Questi fenomeni sono in stretta connessione ed interdipendenza: infatti, uno stereotipo può evolversi in una discriminazione, esattamente come l’hate speech può degenerare in azioni deumanizzanti.Vi mostriamo, in forma semplificata, i dati relativi a questi fenomeni.

 

  • il 20% degli italiani pensa che gli uomini siano dirigenti di impresa e leader politici migliori delle donne;
  • il 49,7% ritiene che l’uomo debba provvedere alle necessità economiche della famiglia e che gli uomini siano meno adatti ad occuparsi delle faccende domestiche;
  • il 32,9% non ritiene necessario aumentare il numero di donne che ricoprono cariche pubbliche;
  • il 34,4% ritiene che una madre occupata non possa stabilire un buon rapporto con i figli al pari di una madre che non lavora;
  • il 15,8% delle donne ha subito discriminazioni nella scuola a fronte del 6,3% degli uomini; nell’ambiente di lavoro il 36,8% delle donne contro il 6,0% degli uomini; nella ricerca di lavoro il 44,4% delle donne contro il 2,9% degli uomini;
  • il 44% delle donne vittime di discriminazione sul lavoro, ha dovuto rinunciarvi per ragioni familiari, a fronte del 16% degli uomini;
  • l’odio nei confronti delle donne di esprime per lo più nella forma del disprezzo, della degradazione e spersonalizzazione, generalmente con connotati esplicitamente sessuali. Gli atti di violenza e odio nei confronti delle donne, incluso il femminicidio, sono spesso opera di persone con cui le vittime sono in relazione amicale o affettiva, quando non all’interno della famiglia;
  • l’11,9% delle donne che hanno esperienza di relazione di coppia ha subito aggressioni verbali violente dal proprio partner. Analoga incidenza hanno le intimidazioni e violenze psicologiche. Violenza verbale e psicologica è presente anche nel lavoro (riguarda l’8,5% di chi ha lavorato, ha cercato lavoro o lavora attualmente);
  • il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito almeno una volta una violenza fisica o sessuale, per lo più da un partner o ex partner. Le italiane subiscono più violenze sessuali, le straniere più violenze fisiche di altro tipo ed anche più violenze psicologiche. Il 16,1% ha subito stalking;
  • le donne in politica diventano spesso bersaglio di insulti specificamente sessisti, sia da parte di colleghi (inclusi quelli del proprio partito), sia sui social media. Oltre l’80% delle parlamentari in 39 Paesi in diverse aree del mondo ha subito violenza psicologica (minacce di morte, stupro, rapimento) e un 65% ha subito osservazioni sessiste o proposte sessuali. Le parlamentari inoltre subiscono anche più attacchi sui social media dei loro colleghi;
  • le donne sono di gran lunga le maggiori destinatarie del discorso d’odio on line. A livello europeo, una donna su dieci dai 15 anni in su è stata oggetto di cyberviolenza. In generale le donne corrono più rischi di aggressioni e molestie virtuali su tutti i social media;
  • le donne sono oggetto del 63% di tutti i tweet negativi rilevati nel periodo agosto 2015-febbraio 2016;
  • questi fenomeni sono alimentati dalla rappresentazione delle donne nei media, dalla pubblicità agli spettacoli di intrattenimento, dove le donne sono spesso presenti solo come corpi più o meno denudati da esibire e guardare, o come figure di contorno (“vallette”) e raramente come veicolatrici di informazioni o opinioniste. Vi è una sola direttrice donna di un quotidiano nazionale (il Manifesto) e molte giornaliste finiscono nelle pagine di costume.

  • il 43,1% ritiene che i gay siano uomini effeminati, e il 38% che le lesbiche siano donne mascoline;
  • il 20% ritiene poco o per niente accettabile avere un collega, un superiore o un amico omosessuale;
  • il 25% considera l’omosessualità una malattia;
  • il 24,8% ha perplessità sul fatto che persone con orientamento omosessuale rivestano una carica politica. Questa percentuale sale al 28,1% nel caso di un medico e al 41,4% nel caso di insegnante di scuola elementare;
  • il 40,3% delle persone LGBTI+ è stata discriminata nel corso della vita: il 24% a scuola o all’università, il 29,5% nel corso di una ricerca di lavoro, il 22,1% sul lavoro;
  • il 10,2% è stato discriminato nella ricerca di una casa da affittare o acquistare; il 14,3% nei rapporti col vicinato; il 10,2% nel rivolgersi a servizi sociosanitari (da un medico, un infermiere o da altro personale sanitario) e il 12,4% in locali, uffici pubblici o mezzi di trasporto;
  • ​il 23,3% della popolazione omosessuale/bisessuale ha subito minacce e/o aggressioni fisiche a fronte del 13,5% degli eterosessuali. Analogamente, è stato oggetto di insulti e umiliazioni il 35,5% dei primi a fronte del 25,8% dei secondi;
  • sui social media, le persone LGBTI+ sono a pari merito con i migranti come oggetto d’odio nei messaggi su Twitter: rispettivamente nel 10,8% e 10,9% dei casi;
  • l’Italia è, nella percezione delle persone LGBTI+, il Paese più omofobo nella UE, sia che si consideri l’incitamento all’odio e al disprezzo da parte dei politici, sia che si consideri l’abitudine di utilizzare un linguaggio offensivo da parte della popolazione. Il 91% degli intervistati ritenevano diffuso l’incitamento all’odio da parte dei politici (una percentuale superata solo dalla Lituania, con il 92%, mentre gli altri Paesi dell’Est Europeo oscillano tra il 43 e l’83%), a fronte dell’11% della Germania, 37% della Francia, 40% della Spagna, 30% del Portogallo. Il 96% riteneva tale atteggiamento diffuso nella popolazione in generale.

  • l’Italia risulta il Paese con il più alto tasso del mondo di ignoranza sull’immigrazione: la maggioranza degli italiani pensa che gli immigrati residenti sul suolo italiano siano il 30% della popolazione, anziché l’8%, e che i musulmani siano il 20% quando sono il 4%;
  • il 48,7% ritiene che, in condizione di scarsità di lavoro, i datori di lavoro dovrebbero dare la precedenza agli italiani; il 35% pensa che gli immigrati tolgano lavoro agli italiani;
  • il 56,4% ritiene che “un quartiere si degrada quando ci sono molti immigrati” e il 52,6% che “l’aumento degli immigrati favorisce il diffondersi del terrorismo e della criminalità”;
  • il 65% degli italiani (contro il 21% dei tedeschi) pensa che i rifugiati siano un peso perché godono dei benefits sociali e del lavoro degli abitanti, mentre il 59% in Germania pensa che rendano il Paese più forte con il lavoro e i loro talenti (solo il 31% in Italia).
  • il 68,4% percepisce i rom/sinti come i più stranieri/estranei di tutti, sebbene spesso di nazionalità italiana da molte generazioni;
  • il 26,9% è contrario all’apertura di sinagoghe, chiese ortodosse, templi buddisti nei pressi della propria abitazione. Salgono al 41,1% se si considera l’apertura di una moschea;
  • il 29,1% delle POC (People Of Color) dichiara di avere subito una discriminazione mentre lavorava (16,9%) o cercava lavoro (9,3%), nella ricerca di una casa da comprare o affittare (10,5%), in locali/uffici pubblici o mezzi di trasporto (8,1%), nei rapporti col vicinato (6,2%);
  • ​in Italia viene utilizzata una terminologia basata sul disprezzo che legittima l’esclusione o la criminalizzazione dei migranti, specie irregolari, creando un ambiente in cui si giustifica il loro sfruttamento;
  • i social media e il web sono invasi di insulti, volgarità, diffamazioni che hanno come oggetto gli immigrati. Per eleggere a bersaglio gli stranieri – e specialmente i profughi, i musulmani e i rom – si ricorre spesso a false notizie e alla cosiddetta post-verità, ossia la tendenza a far prevalere gli appelli emotivi e le proprie idee sulla realtà dei fatti;
  • i siti razzisti sul web sono aumentati esponenzialmente negli ultimi anni;
  • i discorsi d’odio sono in preoccupante aumento e in stretta connessione ad una rappresentazione stereotipata e strumentale dello straniero nei mezzi di stampa. Anche le difficoltà di inclusione efficace dei neoarrivati contribuiscono a rafforzare stereotipi e ad alimentare episodi di intolleranza;
  • indagini nazionali ed internazionali rilevano un diffuso e pericoloso antigitanismo, alimentato dall’ignoranza del fenomeno, da un linguaggio emergenziale e fuorviante (“emergenza nomadi”) e da una informazione spesso scorretta da parte dei media;
  • l’82% degli italiani esprime un’opinione negativa rispetto ai rom, il valore più alto tra i Paesi analizzati dal rapporto. Le differenze tra gli Stati europei non dipendono da fattori demografici (la grandezza della minoranza rom nel Paese), ma dalle politiche di inclusione adottate, nonché dalla possibilità di contatto interpersonale e di amicizia fra rom e gagi (politiche di de-segregazione);
  • il 40% degli italiani ritiene che le pratiche religiose “degli altri” possano essere un pericolo e andrebbero contenute, specie nel caso della religione musulmana;
  • sono in aumento i pregiudizi antisemiti, condivisi da un italiano su cinque, e si moltiplicano i siti web antisemiti. Su Twitter gli ebrei al sesto posto tra le categorie più colpite da hate speech. Si trovano più in basso dei musulmani che, al quarto posto, sono diventati il gruppo religioso considerato con maggiore ostilità;
  • l’Italia è il secondo paese più islamofobo d’Europa. L’odio religioso si combina con quello contro i migranti, ma ha anche una sua consistenza autonoma.

  • nel linguaggio comune, l’attributo di una disabilità fisica o mentale è utilizzato frequentemente come un insulto: ciò pone le persone con disabilità in una situazione di difficoltà e inferiorità, anche quando l’insulto non è rivolto a loro personalmente. Anche il discorso pietistico, oltre ad essere sottilmente insultante esso stesso, contribuisce a rappresentare le persone disabili come tutte dipendenti, bisognose di protezione, perciò non pienamente cittadine;
  • mancano dati sistematici e attendibili sull’odio verso i disabili, in particolare on line. Le persone disabili sono tra le categorie di persone più insultate su Twitter, anche se in misura inferiore a donne, migranti e omosessuali, avvicinandosi, con un 6,4% di tweet insultanti, al 6,6% di tweet negativi rivolti agli islamici.

*Fonti dei dati: Commissione Jo Cox, Carta di Roma, COSPE, Inter-Parliamentary Union, IPSOS, PEW, UNICRI, VOX.

Pensiamo non ci sia nessun bisogno di commentare questi dati, che evidenziano quando lavoro sia ancora necessario fare nell’ambito della promozione dei diritti umani. Ma ora che abbiamo una fotografia del fenomeno, ci potremmo chiedere: queste discriminazioni sono aumentate o diminuite nel tempo?

Sono aumentate, e di molto. Lo testimonia l’Oscad, evidenziando il raddoppio dei reati agiti per motivi di razza, etnia, nazionalità e religione dal 2016 (494) al 2017 (828), rimanendo stabili nel 2018 (801).

​Anche se questi dati ci spaventano, dobbiamo considerare che le discriminazioni sono molto spesso under-reported​, ossia sottostimate. Infatti, sappiamo quante persone non denunciano perché:

  • non sono consapevoli o rifiutano di pensare che quello che hanno subito è un atto di discriminazione, a volte dandosi la colpa per l’accaduto (ad es. “Un uomo mi ha fischiato mentre tornavo a casa a piedi, non avrei dovuto essere lì da sola a quell’ora”);
  • non hanno fiducia nella giustizia e nelle forze dell’Ordine (ad es. “Denunciare non cambia la mia situazione e mi fa solo perdere tempo”);
  • hanno paura di esporsi (ad es. “Non ho raccontato il bullismo omofobico che ho ricevuto perché avevo paura che la polizia lo dicesse alla mia famiglia”);
  • hanno timore di ritorsioni da parte dell’aggressore (ad es. “Se lo denuncio, me lo troverò sotto casa di notte”);
  • non conoscono la lingua, i propri diritti e/o le leggi vigenti in materia nel nostro Paese.

A tutto ciò si aggiunge anche il fatto che molte discriminazioni sono under-recorded, ossia non riconosciute come tali dal nostro sistema giuridico (ad es. i reati di omolesbobitransfobia) o dalle stesse forze dell’Ordine a causa di una scarsa formazione sul fenomeno.

Quindi? Cosa possiamo fare per arginare il fenomeno?

È una domanda molto difficile a cui rispondere perché tutto dipende dal tipo di discriminazione, da chi l’ha agita, dal contesto in cui avviene e da un’infinità di altre variabili.

Ma se dovessimo cercare di delineare una risposta comprensiva, potrebbe essere: parlare.
Parlare per arginare l’omertà e il silenzio che legittimano la violenza.
Parlare per entrare in contatto con chi ha vissuto le nostre stesse discriminazioni, prenderne coscienza e agire insieme per contrastarle.
Parlare per conoscere chi è diverso da noi ed entrarci in empatia, decostruendo i nostri stereotipi e riconoscendogli la nostra stessa umanità.

Parliamo. Rimaniamo attivi nelle community online. Non stiamo da soli e discutiamo di questi temi con chiunque, mettendo in discussione i nostri punti di vista. Facciamo rete e offriamo ascolto e supporto. Partecipiamo a manifestazioni e firmiamo petizioni. Facciamo attivismo nei gruppi locali per fare pressione sui policy-makers.

E soprattutto, non perdiamo la ferma convinzione che le cose possano cambiare in meglio.

​Matteo Botto



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