I Monologhi della Vagina
by Ilaria Nassa / Luglio 9, 2020
La prima volta che ho letto “I monologhi della Vagina” di Eve Ensler era la primavera del 2015. Questo libro è arrivato a me come regalo di compleanno.
Quando l’ho scartato, mi sono imbarazzata e sono diventata rossa. Leggere quella parola, “vagina”, in formato grande sulla copertina del libro, mi ha messa a disagio. Ho guardato subito le persone che mi stavano intorno. C’erano anche delle persone adulte, di quasi sessant’anni. C’erano delle persone che conoscevo da poco. La prima cosa che ho pensato, guardando quella parola, “vagina”, è stata: “Cosa penseranno di me?”.
Leggere questo libro allora, mi ha fatto comprendere quanto il disagio che provassi verso quella parola, “vagina”, dicesse molto più del rapporto col mio corpo che non il potenziale giudizio che si sarebbero potuti fare in quel momento le persone che mi circondavano.
Non l’avevo mai chiamata con il suo nome, fino a quel momento. L’avevo sempre chiamata “passera”, “là sotto”, “parti intime”, “genitali”, “farfallina” e così via. La sbeffeggiavo, ridacchiavo quando ne parlavo. La ignoravo.
Mai mi ero spinta più in là. Per me le parole “vagina” e “vulva” erano sporche, illecite. Parlare di vagine faceva di me una cattiva ragazza.
È da qui che parte anche Eve Ensler. Nel 1998 la drammaturga mette in scena “I Monologhi della Vagina”, in seguito a laboratori per le donne con lo scopo di riconnetterle a questa parte del corpo oscura, coperta, intoccabile. In una delle prime lezioni, ci rivela Ensler, uno degli esercizi prevede guardare la propria vagina allo specchio. I genitali femminili sono più nascosti dal punto di vista fisico, ma anche dal punto di vista culturale: fin da bambine, le donne sono intimate a non toccarsi, a non esprimere i loro desideri sessuali e le loro pulsioni, a non parlare di ciò che viene coperto dalla biancheria intima.
Sempre coperta e mai rivelata, la vagina diventa in questo modo una parte staccata del Sé, una parte che c’è ma non c’è, che è necessario preservare e curare per donarla a un soggetto esterno in un futuro.
Ecco perché riappropriarsi della propria vagina e del suo nome, vuol dire riappropriarsi del proprio corpo, del proprio piacere, del proprio desiderio. Desiderio che può diventare infine parole, voce, urlo.
Ma “I Monologhi della Vagina” non sono solo questo. Raccontano anche di violenze, ferite, strappi, drammi. Attraverso le parole delle vagine, Eve Ensler racconta la storia della condizione femminile nelle zone di guerra, nelle relazioni abusanti, negli atti di violenza. Il sesso non è il focus del libro. Il sesso fa parte dei nostri corpi, ma non è un evento totalizzante. E infine il sesso biologico non è il fattore discriminante: questo libro parla anche a tutte quelle donne che non hanno una vagina. Raccontare la vagina, allora, vuol dire raccontare il proprio corpo, su cui è scritta la nostra storia personale.
L’invito, allora, non riguarda solo e strettamente l’atto sessuale (come potrebbe?), ma riguarda l’emancipazione e la libertà di prendere parola e di esprimersi in modo libero.